Il Monastero di Dadivank, tra i luoghi più sacri del cristianesimo armeno passa sotto il controllo dell'Azerbaigian

La nuova Armenia dopo il conflitto con l’Azerbaigian

Articolo pubblicato per Orizzonti Politici 

Tra settembre e novembre 2020, l’ormai quasi trentennale conflitto tra le ex-Repubbliche sovietiche di Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh ha assunto una nuova dimensione, cambiando definitivamente gli equilibri regionali. L’inaspettata avanzata azera all’interno dei territori della Repubblica di Artsakh, lo Stato autoproclamatosi indipendente dopo la guerra del 1994, ha portato a un’incredibile vittoria dell’esercito di Baku. Il conflitto, che si è protratto per quasi cinquanta giorni, è costato la vita a quasi 3 mila soldati da una parte e dall’altra. L’accordo per un cessate-il-fuoco è stato trovato grazie alla mediazione diretta di Vladimir Putin, il quale ha anche promesso di stanziare dei militari in funzione di peacekeeper a garanzia degli accordi di pace.

L’accordo di pace…

Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian ridisegna i confini nel Caucaso

In verde scuro le aree conquistate dall’Azerbaigian, mentre sono evidenziati i distretti di Kelbajar e Agdam, riconsegnati a Baku dall’esercito armeno. [crediti foto: Mapeh, via Wikimedia Commons CC BY-SA 4.0]

La firma dell’armistizio ha permesso all’Azerbaigian di uscire fortemente rafforzato dallo scontro, sia da un punto di vista militare che territoriale. Baku ha infatti mantenuto il controllo dei territori conquistati durante l’avanzata, insieme alla riconsegna, da parte dell’esercito armeno, di sette distretti azeri, tra cui Agdam e Kelbajar, occupati da quasi trent’anni. La Repubblica di Artsakh, che non è mai stata riconosciuta da nessuno Stato, nemmeno dall’Armenia, perde di fatto il controllo di gran parte dei propri territori. Resta sotto il controllo dei separatisti armeni la capitale Stepanakert, che non è stata raggiunta dall’avanzata di Baku, mentre Shushi (o Shusha), centro culturale e storico della regione, diventerà parte integrante dello Stato azero. L’accordo di pace garantisce inoltre al governo di Baku la possibilità di costruire un collegamento stradale che connetta il territorio azero con l’exclave di Naxçivan.

…e l’emergenza rifugiati

Secondo le stime delle autorità karabakhe, dall’inizio del conflitto 90.000 dei 150.000 residenti hanno abbandonato la regione, cercando rifugio e ospitalità in hotel, scuole e palestre della capitale Erevan. I numeri dei rifugiati non hanno fatto altro che aumentare da quando il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha annunciato con un video su Facebook di aver raggiunto un accordo con la controparte azera. Gli armeni hanno ben presto abbandonato le città sotto la linea del fuoco, che in alcuni casi sono state completamente rase al suolo (come la cittadina di Martumi). In seguito alla caduta di Shushi, avvenuta l’8 novembre, il Primo Ministro è stato costretto a firmare il cessate il fuoco, onde evitare ulteriori perdite e un possibile sfondamento delle forze azere in territorio armeno.

Ma scene terribili si sono verificate anche in seguito alla firma dell’accordo tra Erevan e Baku. Nel nord-est della Repubblica di Artsakh, il distretto di Kelbajar è tornato sotto il controllo dell’Azerbaigian. Qui gli abitanti, terrorizzati dal fatto di poter essere governati dagli azeri, hanno preso i pochi averi rimasti e si sono avviati verso la frontiera armena. Prima di partire molti hanno però deciso di bruciare le loro abitazioni, nell’intento di rendere inabitabili le case e i luoghi in cui hanno vissuto per 30 anni, dai quali gli stessi azeri furono costretti a scappare dopo l’avanzata delle forze armene negli anni ’90.

Nonostante le rassicurazioni da parte di Baku nei confronti della popolazione armena, lunghe file di vetture hanno per giorni intasato l’unica strada che collega il nord della regione con l’Armenia. A Kelbajar si trova anche il monastero di Dadivank, uno dei luoghi più simbolici e sacri del cristianesimo armeno. Nei giorni che sono seguiti all’accordo di pace, centinaia di armeni si sono presentati al monastero, desiderosi di salutare per l’ultima volta la struttura. Come misura preventiva, i peacekeeper russi hanno stazionato davanti all’entrata due carri armati, dal momento che ai preti sarà consentito di rimanere all’interno del complesso. Quello che si vuole evitare è che i soldati azeri prendano di mira l’edificio, come successo in precedenza con un cimitero, dove alcuni militari azeri hanno danneggiato e dissacrato alcuni corpi.

Le proteste in Armenia

La sconfitta militare, insieme alle durissime condizioni del cessate il fuoco, ha infiammato le proteste della popolazione ad Erevan. Il giorno dopo la firma, centinaia di cittadini hanno invaso il Parlamento e gli uffici del governo, alcuni di loro armati, chiedendo le dimissioni del Primo Ministro Pashinyan, considerato il colpevole della sconfitta militare. Da novembre l’opposizione continua a inscenare proteste e blocchi stradali chiedendo le dimissioni del capo del governo, scontrandosi pesantemente con la polizia.

In realtà, la débâcle è da considerarsi il frutto di una lunga serie di mosse e avvenimenti che hanno permesso all’Azerbaigian di essere pronto a condurre un’invasione lampo, con ampie possibilità di vittoria. Negli ultimi quindici anni Baku, grazie agli ingenti proventi derivanti dalla vendita di idrocarburi, di cui il Mar Caspio abbonda, ha provveduto all’allestimento di un esercito moderno e tecnologico. Se negli anni ’90 le forze azere nulla poterono contro la migliore organizzazione e preparazione dei paramilitari armeni, nel 2020 è successo l’opposto.

Il ruolo di Mosca e Ankara

Secondo quanto ricostruito da vari esperti internazionali, l’Azerbaigian ha potuto contare su una serie di armamenti di moderna generazione, insieme all’utilizzo di nuove tecniche di combattimento provate in diversi scenari di guerra mediorientali. Al contrario, all’esercito armeno sono rimaste in dotazione armi di epoca sovietica, le quali si sono dimostrate inutili davanti alla superiorità tecnologica messa in campo da Baku. L’utilizzo dei droni da combattimento, di provenienza turca e israeliana, si è rivelato essere il fattore decisivo. Senza il dominio del cielo infatti, le rapide conquiste territoriali avrebbero richiesto agli azeri un maggior dispendio di vite umane e risorse economiche. Il ribaltamento dello status quo regionale a favore dell’Azerbaigian è spiegato anche dal fatto che, dall’inizio del conflitto, all’Armenia sia mancato un aiuto consistente da parte del suo principale alleato storico, la Russia.

A legare Mosca ed Erevan esiste anche un trattato di cooperazione militare (il CTSO), motivo per cui gli armeni hanno sempre pensato di aver le spalle coperte dalla protezione del gigante russo. Ma dal 2018 le relazioni sono decisamente cambiate. Nikol Pashinyan è salito al potere con un programma innovativo, democratico e fortemente critico del sistema politico dei suoi precedenti, legati a doppio filo con il Cremlino. L’Armenia è arrivata anche vicinissima a chiedere l’integrazione all’interno dell’Unione europea, facendo irritare non poco Vladimir Putin. Va inoltre sottolineato come Mosca sia parte attiva del programma di corsa agli armamenti di Baku, a cui ha fornito il 31% del suo nuovo arsenale. Per questo motivo Putin si è sempre mosso cercando di mantenere un equilibrio tra i due contendenti.

Il nuovo capitolo di questo eterno conflitto segna dunque una svolta storica all’interno degli equilibri regionali. La volontà della Turchia di rinvigorire la propria influenza nei territori un tempo sotto il controllo ottomano coinvolge in pieno anche il Caucaso meridionale. In questa direzione si può dunque comprendere la solida alleanza di Erdogan con il Presidente azero Aliyev. Turchi e azeri inoltre, entrambi turcofoni, si riconoscono come popoli fratelli, alla guida di due Stati ma di un’unica nazione, il cui territorio è interrotto solo dall’Armenia. Per tutta queste serie di motivi, la Turchia ha avuto un ruolo chiave nel favorire la vittoria militare di Baku, come dimostrato dalla presenza di Erdogan alla parata della vittoria.

Questo conflitto ha visto il Cremlino, storico padrone di casa nel Caucaso, restare alla finestra fino alla fine, per poi imporsi come arbitro della disputa e favorire la firma di un cessate-il-fuoco definitivo. Il raggiungimento di un accordo di pace riabilita sicuramente il ruolo della Russia nel campo della diplomazia. Come avvenuto in Siria e Libia però, Vladimir Putin ha dovuto fare i conti con l’attivismo turco, ormai da considerare una costante in tutti quegli scenari che rientrano all’interno del raggio di influenza di Ankara. L’intromissione turca nel Caucaso non dovrebbe portare necessariamente a un deterioramento dei rapporti tra la Turchia e la Russia, quanto piuttosto a un rafforzamento del rapporto di cooperazione tra i due attori, in una fase di ridefinizione degli equilibri nello scacchiere geopolitico regionale e mondiale.

Milanese, nato nel 1998. Analista appassionato di politica e Medio-Oriente, ho studiato alla St Andrews University nel Regno Unito le dinamiche geopolitiche mediorientali, caucasiche e dell'Asia centrale. Il primo libro che mi hanno regalato a cinque anni era una raccolta delle bandiere del mondo e, dopo averle imparate tutte, ho capito che per essere felice ho bisogno di esplorare. Nutro una passione sfrenata per le rivoluzioni e amo raccontarle.

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