Vladimir Putin, chi è lo zar di Russia

Articolo pubblicato per Orizzonti Politici

Vladimir Vladimirovic Putin è l’uomo forte della Russia da oltre vent’anni a questa parte. Eletto Presidente nel 2000, è stato in grado di emergere a livello nazionale e internazionale, facendo risorgere la Federazione Russa dalle ceneri che sono seguite al crollo dell’ex Unione Sovietica. A giugno, attraverso un referendum, la popolazione russa gli ha permesso di cambiare alcuni articoli della costituzione, garantendo al Presidente la possibilità di rimanere in carica fino al 2036.

Ex agente del KGB, il servizio segreto dell’Unione Sovietica, all’inizio degli anni ‘90 Putin divenne il braccio destro del sindaco di San Pietroburgo, Anatolij Sobcak.

Terminata l’esperienza a San Pietroburgo, il primo Presidente dell’era post-sovietica Boris Eltsin lo volle personalmente a Mosca, dove gli venne affidata la direzione del FSB, il nuovo servizio segreto erede del KGB. Da lì in breve fu nominato Primo Ministro e, in seguito alle dimissioni di Eltsin alla fine del 1999, candidato alla Presidenza della nuova nazione russa.

Oggi la sua figura appare consolidata e inscalfibile, il suo personaggio inoltre è idolatrato non solo in patria, ma anche in giro per il mondo da chi si ispira alla suo modello di governo autoritario. Tuttavia per emergere dall’ombra Putin ha dovuto convincere molti, all’interno dei circoli di potere russi, che fosse lui la persona giusta su cui fare affidamento per il rilancio del paese all’interno del quadro globale.

Gli attentati del 1999

Tra il 4 e il 16 settembre del 1999 le città di Mosca e Volgodonsk vennero sconvolte da una serie di attacchi dinamitardi che colpirono alcuni edifici residenziali. Si contarono quasi 300 feriti e più di 1000 morti. Per Putin, allora Primo Ministro e candidato alla presidenza dello Stato, la risposta a questo attacco contro il cuore della Russia avrebbe determinato il futuro della sua personale carriera politica.

Come responsabili furono additati senza troppi scrupoli i separatisti ceceni, allora impegnati a combattere contro lo stato russo per l’indipendenza delle regioni del Caucaso da Mosca. Nessun organizzazione cecena ha mai rivendicato la responsabilità per le esplosioni ed esistono anzi forti dubbi sul fatto che in realtà l’FSB fosse implicato nelle esplosioni, tesi da sempre smentita dal Cremlino. Pochi giorni dopo l’attacco Putin ordinò il bombardamento di Grozny, capitale della Cecenia, e diede inizio alla seconda guerra cecena.

Negli ultimi anni diversi esperti ed ex appartenenti ai servizi di sicurezza russi hanno sostenuto come gli attacchi facessero in realtà parte di una strategia, coordinata dal FSB, per permettere a Putin di arrivare alla presidenza. David Satter, giornalista esperto di Unione Sovietica e Russia, ha sostenuto davanti al Congresso americano come il ruolo dell’apparato di sicurezza russo nelle esplosioni sia stato evidente. Alexander Litvinenko, ex-spia del FSB, ucciso tramite avvelenamento da sostanza radioattiva nel 2006 nel Regno Unito, ha pubblicato un libro nel 2002 intitolato Blowing up Russia – Terror from Within, in cui dimostra come in realtà le esplosioni fossero parte del piano ordito dai servizi segreti russi, con l’avallo di Putin, per scatenare l’invasione della Cecenia e facilitare poi la sua elezione a Presidente.

A prescindere dalle tesi favorevoli o contrarie al coinvolgimento diretto di Putin o di alte sfere del FSB nelle esplosioni di Mosca, la figura e il prestigio di Putin furono enormemente accresciuti in seguito alla vittoriosa campagna cecena dell’esercito russo. La guerra in Cecenia ha infatti permesso a Putin di aumentare la sua scarsa popolarità presso l’opinione pubblica, dando inizio al suo periodo di ventennale controllo sulla nazione.

Boom economico e recessione

Il suo grado di apprezzamento presso la popolazione russa è stato in larga parte determinato dalla capacità, dimostrata nel primo decennio al Cremlino, di risollevare le sorti economiche del paese. Se infatti gli anni della presidenza di Boris Eltsin, coincisa con lo scioglimento dell’URSS e l’affacciarsi dell’economia russa al sistema del libero mercato, erano stati caratterizzati da una decennale recessione, l’avvento di Putin ha invertito in maniera radicale questa tendenza. 

L’inizio del suo mandato presidenziale è coinciso con l’aumento, a livello globale, dei prezzi del petrolio e in generale delle materie prime, di cui il paese dispone in abbondanza. Ciò ha permesso all’economia nazionale di crescere di quasi il 94% tra il 1999, anno in cui Putin è diventato Primo Ministro, e il 2008.

Nello stesso periodo di tempo, il PIL pro-capite è quasi raddoppiato. Se quindi il primi nove anni alla guida del paese sono stati segnati da una grande ripresa economica, che ha reso molto più facile la ricostruzione del Paese dopo il crollo dell’URSS, la grande recessione seguita alla crisi del 2008 ha segnato l’inizio del tracollo economico che ha accompagnato la Russia da quel momento fino ad oggi. 

Dal 2014, inoltre, la Federazione Russa soffre enormemente a causa delle sanzioni internazionali che sono state imposte contro le sue aziende e che limitano le capacità di esportazione del Paese. L’applicazione delle sanzioni è stata causata dall’invasione e dalla successiva annessione della penisola di Crimea e dall’attivo ruolo giocato dalla Russia nella guerra civile ucraina, tutt’oggi in corso.

Hybrid Warfare: la nuova strategia russa nello scacchiere globale

Con il ritiro delle truppe sovietiche dalla disastrosa campagna di invasione dell’Afghanistan (1979-1989) e la fine della Guerra Fredda, gli anni ‘90 hanno visto il ruolo della Russia fortemente ridimensionato rispetto alla centralità che per decenni l’URSS ha occupato all’interno dello scacchiere geopolitico globale.

Oggi però possiamo dire che la Russia di Putin è tornata a giocare un ruolo fondamentale all’interno della competizione tra le superpotenze.

Esperti e studiosi hanno coniato il termine hybrid warfare (guerra ibrida) per descrivere al meglio la metodologia russa di estendere la propria influenza al di fuori dei confini nazionali. Basata sull’utilizzo di metodi convenzionali e non, lo stato russo è ritenuto responsabile di condurre con regolarità attacchi informatici e campagne di disinformazione che puntano a consolidare l’immagine della Russia all’estero, soprattutto in Occidente, e allo stesso tempo minare la credibilità di istituzioni come la NATO e l’Unione europea.

Il caso più eclatante riguarda le interferenze documentate durante le elezioni presidenziali americane del 2016, quando l’account privato di posta elettronica di Hillary Clinton venne violato per favorire la corsa alla presidenza di Donald Trump.

Un recente documento pubblicato dall’intelligence britannica mostra inoltre come sia durante il referendum per l’indipendenza scozzese da Londra del 2014, che in occasione di quello per l’uscita del Regno Unito dalla UE nel 2016, la Russia abbia provato a intervenire in maniera più o meno diretta, spingendo perché l’esito della consultazione fosse favorevole ai propri interessi strategici.

Non solo, in seguito all’annessione della Crimea nel 2014, portata a termine senza che l’esercito regolare russo dovesse sparare un solo proiettile, alcune compagnie private di mercenari russi sono state utilizzate per estendere l’influenza di Mosca, sia in Medio Oriente che in Nordafrica. Dopo aver infatti sperimentato con successo l’utilizzo di mercenari in Siria, dove la Russia è corsa in soccorso del governo di Bashar al-Assad, il Cremlino ha schierato in Libia i mercenari della Wagner Group a sostegno del Generale Khalifa Haftar.

Putin si è dunque adoperato perché la Russia tornasse a coprire un ruolo centrale non solo in quelle regioni che storicamente rientrano nella sua area di influenza, ovvero nelle ex Repubbliche sovietiche, ma anche in quei conflitti mediorientali, Siria e Libia, dove si stanno delineando i rapporti di forza e di alleanze che determineranno il corso del prossimo decennio. 

Inoltre, secondo la retorica del Cremlino, è da sempre in corso il tentativo da parte della NATO di rovesciare il regime russo e quello dei suoi alleati nella regione, sponsorizzando rivoluzioni e movimenti popolari che chiedono maggiori libertà e diritti civili. Grazie anche a questa percezione, la repressione della società civile in Russia negli ultimi anni è significativamente aumentata.

La pandemia e l’elezione “a vita”

Il 2020 avrebbe dovuto essere per Putin l’anno della definitiva consacrazione a “zar” della nuova Russia. La riforma costituzionale pensata dal Presidente gli permetterà infatti di candidarsi per altri due mandati alla presidenza della nazione, di fatto garantendogli di rimanere in carica fino al 2036. Il problema della successione è stato quindi rimandato, perché sebbene Putin non abbia nessuna intenzione di abbandonare il suo trono su cui siede da vent’anni, già ci si interroga su cosa potrebbe succedere nel momento in cui l’ex agente del KGB decidesse di farsi da parte.

Nonostante la mozione sia stata approvata in un referendum plebiscitario a fine giugno insieme ad altre modifiche alla carta costituzionale russa, raramente il Presidente si è trovato a gestire una situazione così complicata per il suo paese. 

Se l’economia infatti non riesce a decollare, zavorrata dalle sanzioni internazionali che affliggono il Paese dal 2014, il crollo del prezzo del petrolio seguito allo scoppio della pandemia non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Il rublo russo è poi in caduta libera rispetto al dollaro, rendendo ancora più difficili le importazioni.

Anche la gestione della pandemia ha fatto nascere diversi interrogativi, in quanto il governo è prima passato per un’iniziale fase negazionista, per poi trovarsi ad ammettere che il Paese è attualmente il quarto al mondo per numero dei contagi, i quali si apprestano a raggiungere la soglia del milione. Essendo la Russia impegnata su diversi fronti militari (Siria, Libia e Ucraina), ciò rende spontaneo domandarsi quanto questa strategia sia sostenibile, in un periodo di forte recessione come quello che attende l’economia globale nei prossimi anni.

Milanese, nato nel 1998. Analista appassionato di politica e Medio-Oriente, ho studiato alla St Andrews University nel Regno Unito le dinamiche geopolitiche mediorientali, caucasiche e dell'Asia centrale. Il primo libro che mi hanno regalato a cinque anni era una raccolta delle bandiere del mondo e, dopo averle imparate tutte, ho capito che per essere felice ho bisogno di esplorare. Nutro una passione sfrenata per le rivoluzioni e amo raccontarle.

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