Scritto da Stefano Mazzola
Postato in Analysis, Middle East
Articolo pubblicato per Orizzonti Politici
Le conseguenze delle restrizioni applicate dai governi a causa dell’epidemia del Covid-19 hanno, per mesi, portato alla sospensione del traffico aereo e terrestre e alla chiusura degli stabilimenti industriali, causando il crollo della domanda di petrolio. Le ricadute per quegli stati che basano il sostentamento della propria economia sull’estrazione di idrocarburi sono state pesantissime. Se per anni la capacità di dettare i ritmi della produzione e della vendita di greggio nel mondo ha permesso a paesi come l’Arabia Saudita di ergersi al ruolo di potenze regionali e globali, l’inaspettata e repentina recessione ha posto seri interrogativi sulla sostenibilità finanziaria delle casse dello stato.
Per la prima volta nella sua storia, l’indice Wti, il prezzo di uno speciale tipo di greggio estratto in Texas usato come benchmark per stimare il valore dell’oro nero, è andato in negativo, tanto che il 20 aprile un barile veniva venduto a -37$, un paradosso.
A Riyad – la capitale dello Stato saudita – i contraccolpi a seguito di tale crisi potrebbero rivelarsi decisivi per il futuro del regno. Il governo, a causa della crisi di liquidità dovuta alla riduzione delle vendite di petrolio, è dovuto correre ai ripari, imponendo pesanti tagli al welfare e un cospicuo aumento delle tasse. Una delle misure messe in atto consiste nell’aumento, dal 1 luglio, dell’IVA dal 5 al 15%. L’implementazione di simili misure di austerità è indicativa della crisi che sta attraversando il Paese.
La dipendenza dagli introiti garantiti dalle rendite petrolifere ha portato, negli anni, l’Arabia Saudita a diventare l’emblema dei cosiddetti rentier state. Come in altri paesi dipendenti dall’estrazione di materie prime, la monarchia al potere ha disegnato un patto sociale con i suoi cittadini basato su uno scambio tra governanti e governati. A fronte di una massiccia erogazione di sussidi e benefici economici ai propri cittadini, la dinastia dei Saud ha ottenuto dalla popolazione la legittimità a governare, svincolata da ogni forma di rappresentanza civile. Gli enormi ricavi generati grazie all’esportazione di petrolio nel corso degli ultimi 45 anni hanno quindi permesso alla monarchia di mantenere stabile l’equilibrio interno dello Stato, soffocando qualsiasi forma di dissenso.
Un futuro di luci e ombre
Nel breve termine, la recessione provocherà anche una riduzione dei fondi destinati a Vision 2030, il progetto di rigenerazione economica del Paese. Lanciato da Mohammad bin Salman (MbS), leader de facto della nazione, nel 2016, Vision 2030 si propone di ridurre la dipendenza dell’economia saudita dalle rendite petrolifere. Oltre ad essere il più ambizioso piano di investimenti presentato dalla monarchia saudita, il progetto è, per MbS, la chiave per consolidare ulteriormente il suo potere nelle faide interne alla famiglia reale.
Con Vision 2030, l’Arabia Saudita punta a consolidare il suo ruolo di leader nel mondo arabo e musulmano. Il piano comprende inoltre il rilancio e la diversificazione dell’economia, puntando sull’incremento dell’afflusso di capitali esteri e, soprattutto, sullo sfruttamento della posizione strategica della Penisola Araba in un’epoca in cui l’asse centrale degli interessi strategici globali si sta spostando sempre più verso oriente. L’espansione del turismo religioso nei siti sacri di Mecca e Medina e le opere che finanziano il proselitismo della scuola Wahabita, legata alla famiglia dei Saud da un patto sancito nel 1744, rientrano nel tentativo di consolidare ulteriormente la centralità del Paese all’interno mondo islamico.
“La recessione in corso costringerà quei paesi e governi che si erano impegnati a investire fortemente sull’espansione della green economy a posticipare i loro piani” racconta, in un’intervista per Orizzonti Politici, Federico Donelli, ricercatore in relazioni internazionali e docente di Politics of the Middle East presso l’Università di Genova. Secondo Donelli l’Arabia Saudita, essendo uno swing producer, dunque in grado di influenzare i prezzi e la produzione di greggio, avrà la possibilità di dominare ulteriormente il mercato, complice il ritorno a uno scenario pre-Covid che porterà al riprendere degli scambi globali e degli spostamenti. Lo Stato saudita si troverà nella condizione di sfruttare al meglio la forte domanda di petrolio che si andrà a generare, incrementando i ricavi e garantendosi le finanze necessarie per portare a compimento Vision 2030.
L’eventuale possibilità di un rallentamento di Vision 2030 potrebbe anzi consistere in un vantaggio per MbS, che in un quadro di totale recessione a livello mondiale avrebbe ancora più tempo per realizzare le riforme necessarie. Inoltre, secondo Federico Donelli, questo periodo di inaspettato congelamento dell’economia globale fornirà l’occasione al principe ereditario di concentrare ulteriormente il potere nelle sue mani, minando la forza e le risorse dei membri della famiglia reale che sono ostili alla sua ascesa.
Infatti, sebbene fino a questo momento il sovrano sia ricorso alla repressione del dissenso per rafforzare la propria egemonia, in futuro egli potrebbe anche avere la possibilità di accrescere il consenso nei suoi confronti. Da un lato, è sotto gli occhi di tutti che il principe si sia servito di misure coercitive e forme di epurazione contro l’élite saudita, al fine di limitare le opposizioni e governare più agevolmente in questa fase storica molto delicata. Lo testimoniano l’arresto ad aprile di tre principi sospettati di tramare contro MbS, e le indagini recentemente avviate dalla commissione nazionale anti-corruzione (Nazaha) che hanno condotto all’incarcerazione di 298 impiegati pubblici, accusati di clientelismo e reati finanziari. D’altra parte, tuttavia, rimane innegabile come la facoltà di attuare importanti strategie di sviluppo che aumentino il benessere generale fornisca a MbS un’occasione unica per accrescere la propria popolarità e, quindi, ampliare il proprio margine di manovra dover ricorrere ulteriormente a misure repressive.
Un quadro internazionale in continua mutazione
Chiaramente, è evidente come le questioni di stabilità interna siano inevitabilmente intrecciate con quelle di politica estera. Sempre seguendo il resoconto di Al Jazeera, alcuni membri dell’imprenditoria saudita avrebbero espresso del malcontento riguardo la gestione da parte di MbS della questione yemenita. Al principe, è contestata l’incapacità di prevenire gli attacchi contro alcune infrastrutture petrolifere a opera dai ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran.
Date le circostanze, sarebbe lecito supporre un aumento dello sforzo bellico in Yemen da parte di bin-Salman, al fine di combattere il gruppo armato di matrice sciita e recuperare il favore dei grandi gruppi industriali sauditi. Tuttavia, come precisa Donelli, nella vicenda yemenita non sono più gli Houthi a porre la questione più rilevante. “Il discorso ruota piuttosto intorno alla diversità di vedute tra Arabia Saudita e Emirati Arabi circa le prospettive di ricostruzione post-bellica nel Paese”. Il tema della spartizione delle aree di influenza al termine del conflitto ha quindi segnato una incrinatura dei rapporti tra MbS e il Presidente degli Emirati, storico alleato. E anzi, prosegue Donelli, la debolezza derivante da questi attriti è testimoniata dalla vulnerabilità del Regno agli attacchi contro le proprie installazioni petrolifere.
D’altro canto, è improbabile che l’Iran – che non riesce a inviare aiuti agli Houthi da mesi – perseveri nell’attuazione di pressioni contro Riyad, nonostante il ritiro dei missili americani a protezione delle installazioni Saudi Aramco. Infatti, è presumibile che Teheran adotti un atteggiamento di pazienza strategica, evitando di aumentare la tensione con l’Arabia Saudita per non rischiare un intervento statunitense a favore degli storici alleati sauditi.
In effetti, nonostante i recenti screzi dello scorso mese tra MbS e la Casa Bianca, rimane un interesse reciproco a preservare buoni rapporti. Per quanto avesse fatto scalpore la decisione di Washington di ritirare dal suolo saudita quattro batterie di missili Patriots con personale annesso (circa 300 militari), è bene sottolineare che l’impatto reale di tale mossa sia stato più mediatico che geopolitico. Gli USA avevano bisogno di un modo per condannare “di facciata” il coinvolgimento dei sauditi nella “guerra dei prezzi del greggio” di aprile.
Tuttavia, la scelta americana non cambierà di fatto gli equilibri strategici e i rapporti con l’Arabia. Prima di tutto, il rischio effettivo di un attacco iraniano contro le infrastrutture petrolifere rimaste “scoperte” è piuttosto basso. In secondo luogo, a livello geopolitico i paesi del Golfo rappresentano un asset importante per l’America per assicurare la propria presenza nell’Oceano Indiano, nell’ottica di contenere l’avanzata cinese. Appare dunque difficile pensare che i rapporti tra Washington e Riyad si deteriorino in maniera sostanziale a causa della crisi petrolifera.
Un’opportunità inaspettata
Una situazione di drammatica incertezza potrebbe quindi permettere all’Arabia Saudita di consolidare il proprio ruolo all’interno di una regione storicamente segnata dall’instabilità politica ed economica. Infatti, nonostante la perdita di entrate derivanti dal greggio, il Paese sarà in grado di risollevarsi meglio degli altri, grazie alle ingenti risorse finanziarie accumulate negli anni e alla grande disponibilità di idrocarburi estraibili in tempi e a costi inferiori rispetto a Russia e Stati Uniti. Anche se il mercato petrolifero è destinato a perdere la centralità nel campo energetico, l’arrivo di un’inaspettata crisi economica potrebbe portare alla posticipazione della conversione di molti paesi alle risorse rinnovabili. In questo frangente, Riyad si sarebbe in grado di garantire le risorse necessarie e occupare la maggior parte delle quote di mercato, mantenendo la sua egemonia nel campo delle esportazioni e allo stesso tempo riuscendo a portare avanti il progetto di diversificazione economica architettato da MbS.