L’importanza dell’Iran

 

Articolo pubblicato per Orizzonti Politici

Da ormai quarant’anni considerato tra i maggiori nemici dell’occidente, l’Iran è uno dei pochi paesi, all’infuori dei membri del Consiglio di Sicurezza, che ancora ha la capacità di minacciare lo scoppio di un conflitto globale. I rapporti con gli USA e, di riflesso, con i suoi alleati si deteriorarono subito dopo la presa del potere degli Ayatollah nel 1979, quando il neo-instauratosi regime domandò l’estradizione di Mohammad Reza Pahlavi agli Stati Uniti dove l’ex Scià di Persia si era rifugiato scampando al golpe. I successivi avvenimenti all’ambasciata americana a Teheran contribuirono a esacerbare definitivamente gli animi tra i due paesi e, da allora, l’Iran si è sempre distinto per la sua totale inconciliabilità con il sistema di alleanze disegnato dal blocco NATO in Medioriente.

Lo sviluppo dell’industria atomica iraniana ha nel tempo contribuito a suggellare l’enorme frattura che esiste tra la Repubblica Islamica e il resto del mondo, portando il paese a essere classificato, insieme alla Corea del Nord, tra le minacce alla pace globale. Negli anni ogni tentativo di mediazione tra i due schieramenti era sempre naufragato, non essendoci mai stato un vero passo indietro da nessuna delle due parti per riuscire a trovare un compromesso.

I Ministri degli Esteri firmatari dell’accordo sul nucleare iraniano a Vienna, luglio 2015

L’avvento alla presidenza di Hassan Rouhani, nel 2013, sembrò poter dare una svolta a questo impasse che perdura da quarant’anni.

Il particolare sistema politico iraniano permette lo svolgimento di regolari elezioni per il parlamento e la presidenza della nazione, sebbene sia a tutti gli effetti un regime teocratico autoritario, in cui la figura di leader supremo della nazione è ricoperta dall’Ayatollah. Ogni candidato deve dunque passare al vaglio di una commissione elettorale, la quale sostanzialmente limita il libero svolgimento della vita democratica del paese ma, in fondo, permette ai cittadini di esprimersi su quale “corrente” del regime debba guidare il paese. Infatti, negli anni, l’assenza di partiti ha portato il mondo politico a dividersi tra i cosiddetti falchi e i moderati, che alternativamente assumono i ruoli dirigenziali del paese. La caduta del governo di Ahmadinejad, da molti considerato come una delle figure più intransigenti che abbia mai guidato l’Iran, e l’avvento alla presidenza di Rouhani fecero tirare un sospiro di sollievo alle cancellerie occidentali, visti i segnali di apertura mandati da Rouhani in campagna elettorale.

Sponsorizzato fortemente dalla presidenza Obama e dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il 14 luglio 2015 venne quindi firmato a Vienna il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), ovvero l’accordo finale di un processo cominciato nel 2013, proprio in seguito all’elezione di Rouhani, con lo scopo di limitare la produzione nucleare iraniana, scongiurando la possibilità che il paese potesse dotarsi dell’arma atomica. L’accordo, siglato dall’Iran con i 5 membri del Consiglio di Sicurezza (USA, Regno Unito, Francia, Russia e Cina) più la Germania e l’Unione Europea, segnava la fine della minaccia nucleare iraniana e allo stesso tempo la rimozione delle sanzioni al sistema bancario e all’esportazione di greggio che, per anni, avevano condannato l’Iran alla recessione. Uno scenario difficilmente pronosticabile fino a pochi anni prima da entrambi gli schieramenti ma che, incredibilmente, sembrò dare una svolta agli equilibri della regione mediorientale.

Il delicato compito di vigilare sul rispetto degli oneri del trattato da parte dell’Iran è stato affidato all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), i cui esperti hanno da allora avuto libero accesso a tutti gli impianti di produzione e di stoccaggio atomici nel paese e sono, di fatto, i garanti dell’accordo. Il trattato ha inoltre dato inizio alla conversione di molte centrali nucleari in strutture adibite all’innovazione scientifica, allontanandole dunque dalla natura militare per cui erano state progettate.

A turbare l’equilibrio che si era andato a creare ci ha pensato l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Sul fronte della politica estera uno dei suoi cavalli di battaglia è stata proprio la decisione di abbandonare unilateralmente l’accordo, dichiarando che il JCPOA fosse l’accordo peggiore siglato da un presidente americano e che lui fosse in grado di produrne uno migliore. Tutto ciò è avvenuto senza una discussione produttiva con gli altri firmatari, che sono stati di fatto travolti dalla sua decisione, e nonostante i report dell’IAEA dimostrino che, fino al 31 maggio 2019, l’Iran arricchiva l’uranio impoverito entro le quantità stabilite e lo stoccaggio di materiale nucleare rientrava nei termini concordati.

Vista la portata storica del trattato, si fatica dunque a credere che la scellerata scelta di Trump sia stata mossa da reali ragioni di sicurezza, come egli continua a sostenere. Analizzando la politica estera di Washington, si comprende invece come questa mossa sia invece un assist ai più grandi oppositori dell’accordo, Israele e Arabia Saudita. I due paesi, sponsor e fedeli sostenitori del Tycoon alla Casa Bianca, da sempre si oppongono a ogni tentativo di reintegrare Teheran all’interno della comunità internazionale, timorosi che ciò favorisca un ulteriore sviluppo dell’influenza iraniana nella regione. Le frizioni dell’Iran con Riyad prendono origine da una diversa concezione dell’Islam e si espandono ai più profondi interessi geopolitici ed economici. Da anni poi essi sono coinvolti in diverse guerre per procura tra cui lo Yemen, la Siria e l’Iraq.

È necessario comprendere che l’abbandono, da parte di un paese come gli USA, degli accordi internazionali non facilita il raggiungimento di un più alto livello di sicurezza globale.

Gli atteggiamenti di politica espansiva portati avanti da Teheran nei paesi limitrofi come Siria, Iraq e in Libano (vera fonte di preoccupazione per Tel Aviv) devono essere letti come l’ultimo e disperato tentativo che l’Iran possiede per alzare la posta in gioco, visti gli effetti disastrosi in termini economici che le sanzioni americane hanno provocato da quando sono state reimpostate. Lo stesso vale per i sabotaggi di alcune petroliere straniere nel Golfo Persico (di cui l’esercito iraniano è stato accusato) o l’abbattimento di un drone americano. Il fatto è che, sul fronte della politica interna, Rouhani si è speso enormemente per far accettare alle fasce politiche e sociali più intransigenti l’accordo sul nucleare. Ciò è avvenuto con la consapevolezza che si sarebbe abbandonato l’unico strumento che il paese avesse per far sentire la propria voce. Il tradimento americano, invece, con la successiva ostracizzazione dell’Iran dal mercato globale, ha portato a una grave recessione che nell’ultimo anno ha ulteriormente impoverito il paese.

Rouhani, per sopravvivere alle forti pressioni dei falchi del regime, non ha dunque altre possibilità se non quella di alzare la tensione, facendo così notare agli americani quanto potrebbero essere pericolose le conseguenze di un allontanamento definitivo. L’esplosività della situazione è stata evidentemente compresa dalle cancellerie europee, Francia in primis, con Macron che si è candidato al ruolo di mediatore tra le due potenze e già al G7 di Biarritz ha provato a scongelare gli animi.

Va inoltre considerato il fattore delle elezioni presidenziali americane, programmate per il 2020, le quali al momento proiettano Joe Biden come futuro candidato alla presidenza per il partito democratico. Proprio colui che nel 2015 ricopriva il ruolo di Vicepresident al fianco di Obama ad oggi può rivelarsi un grande vantaggio strategico per l’Iran. Qualora i sondaggi nel tempo favorissero ulteriormente Biden nella corsa alla Casa Bianca, gli iraniani saprebbero che in poco tempo potrebbero tornare a sedersi al tavolo con uno dei grandi sponsor del JCPOA.

Donald Trump annuncia l’uscita degli USA dall’accordo, maggio 2018

Vista tuttavia la poca affidabilità dei sondaggi e la carenza di tempo, per una soluzione rapida è dunque necessario che si provveda a rimuovere al più presto le sanzioni e che si torni a trattare l’Iran come un interlocutore di massima importanza. Poter contare su un accordo con l’Iran permetterebbe oltretutto di ottenere in maniera più facile la riduzione del suo coinvolgimento nei conflitti regionali, andando così a rassicurare i timori di Israele che vedrebbe ridotta la minaccia proveniente da Teheran.

L’ultimo report dell’IAEA, datato luglio 2019, segnalava inoltre che, quattordici mesi dopo l’abbandono americano del trattato, l’Iran è tornata ad arricchire l’uranio impoverito sopra i livelli consentiti, un’ultima dimostrazione della difficile sostenibilità della via tracciata da Donald Trump.

Milanese, nato nel 1998. Analista appassionato di politica e Medio-Oriente, ho studiato alla St Andrews University nel Regno Unito le dinamiche geopolitiche mediorientali, caucasiche e dell'Asia centrale. Il primo libro che mi hanno regalato a cinque anni era una raccolta delle bandiere del mondo e, dopo averle imparate tutte, ho capito che per essere felice ho bisogno di esplorare. Nutro una passione sfrenata per le rivoluzioni e amo raccontarle.

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