Scritto da Stefano Mazzola
Postato in Analysis, Middle East, Russia and central Europe
Articolo pubblicato su Orizzonti Politici
Lo scorso 2 dicembre, il governo dell’Afghanistan e i rappresentanti dei talebani hanno annunciato di aver raggiunto un accordo preliminare per proseguire i colloqui di pace, nella prima intesa scritta in diciannove anni di guerra tra le due parti.
A confermare il passaggio alla fase successiva dei colloqui sono stati Nader Nadery, un membro del team negoziale del governo afgano, e Mohammad Naeem, portavoce del movimento dei talebani. Il tavolo negoziale costituisce un’intesa su come procedere con i negoziati, volti ad una smilitarizzazione della regione e un cessate il fuoco generale. I negoziati di dicembre giungono dopo mesi di discussioni nel contesto delle trattative, caldeggiate dagli Stati Uniti, iniziate nella capitale del Qatar, Doha, lo scorso 12 settembre.
“Il processo di pace afgano si caratterizza per la totale mancanza di un piano di riconciliazione tra le forze in campo e la popolazione civile, martoriata ormai da più di quarant’anni di ininterrotti conflitti armati”, racconta a Orizzonti Politici Andrea Ferrari-Bravo, ex-capo sezione per lo sviluppo rurale e dell’agricoltura in Afghanistan per conto dell’Unione europea.
Dall’invasione sovietica del ‘79 in poi infatti, l’Afghanistan ha conosciuto solo guerra e violenza, “motivo per cui è difficile pensare che un accordo sulla carta possa bastare a riportare la pace in un Paese in cui il governo e i talebani si spartiscono il territorio e gli attacchi terroristici contro i civili non hanno perso d’intensità”.
L’Afghanistan in bilico fra pace e violenza
Il tavolo negoziale qatarino di settembre è a sua volta figlio dell’accordo bilaterale tra talebani e Stati Uniti d’America dello scorso 29 febbraio, cornice nella quale Washington e il movimento talebano hanno formalmente sottoscritto i termini di un accordo negoziale per porre termine alla più lunga guerra combattuta dagli Stati Uniti. Fra i punti più importanti dell’accordo figura anche il ritiro delle truppe straniere dal Paese entro 14 mesi. Fino ad ora, l’amministrazione americana harispettato quanto sottoscritto: le truppe sono passate da 13.000 a febbraio a 8.600 a giugno, sono ora 4.500 circa ed entro fine gennaio 2021 verranno ridotte a 2.500. L’intesa di Doha prevede il ritiro completo entro il 31 aprile 2021.
L’accordo di dicembre tra le delegazioni della Repubblica islamica dell’Afghanistan e i talebani segna importanti passi in avanti nell’ottica di un processo di pacificazione nella regione, a lungo invocata del popolo afgano. Tuttavia, la violenza diffusa in tutto il Paese continua a minare l’intero quadro negoziale.
Nello specifico, novembre è stato il mese peggiore in termini di morti civili in Afghanistan da settembre 2019, con un bilancio di 212 vittime riportato dal New York Times. Sono invece almeno 90.000 i civili uccisi o feriti in Afghanistan negli ultimi undici anni di guerra fra talebani e le forze del governo centrale e negli attentati compiuti dai miliziani dello Stato islamico (Is), secondo quanto riferito dal report 2020 della Commissione afghana per i diritti umani. Numerosi sono anche gli episodi di violenza perpetrati contro i giornalisti. Con l’assassinio della giornalista afgana Malalai Maiwand a Jalalabad, lo scorso 10 dicembre, il numero totale di reporter e operatori dei media uccisi nel 2020 in Afghanistan sale a dieci.
I talebani e lo Stato islamico: il conflitto parallelo che insanguina l’Afghanistan
Tra i punti dell’accordo di pace tra Washington e i talebani siglato vi è l’impegno di questi ultimi a continuare a combattere la branca locale dell’Is.
Con la firma dell’accordo di Doha a febbraio 2020, i talebani sono diventati partnernel controterrorismo degli Usa. Dopo il ritiro nel 2014 delle truppe della missione Nato ISAF i talebani hanno guadagnato terreno, arrivando a controllare un terzo del territorio afghano, fomentati anche dall’avanzata dell’Is tra fine 2014 e inizio 2015.
Il conflitto tra le due parti è particolarmente accentuato nella regione del Khorasan, vicino al Pakistan, dove opera Wilayat Khorasan (in arabo, la “Provincia del Khorasan”), l’organizzazione terroristica affiliata all’Is. Alla fine del 2019 il movimento ha subito importanti sconfitte militari, a seguito delle operazioni congiunte degli Usa, delle forze governative afghane e dei talebani.
Tuttavia, l’organizzazione è attiva nelle province di Nangarhar e Kunar, e mantiene la capacità di condurre attentati e stragi nei centri urbani, come dimostra l’attentatocontro l’Università di Kabul dello scorso 2 novembre. Nell’area occidentale della capitale vivono numerose comunità sciite di etnia hazara, considerate una minoranza apostata e già vittime negli anni Novanta di una feroce repressione. Per l’Is, colpire questa particolare minoranza ha un significato simbolico e strategico: si punta al conflitto settario, fin qui scongiurato dagli afghani nonostante quattro decenni di guerra.
Di recente, nel Paese sono stati poi uccisi esponenti di spicco di al-Qaeda, tra cui Ayman Al-Zawahiri e Abu Muhsin al-Masri. Il primo, vertice della galassia qaedista, è morto a Ghazni lo scorso 21 novembre, per complicazioni dovute all’asma o per mancanza di accesso alle cure. La sua morte segue l’uccisione in circostanze misteriose del numero due dell’organizzazione, Abu Muhammad al-Masri, assassinato nelle strade di Teheran lo scorso 7 agosto. Di fronte alla morte del leader di al-Qaeda si sarebbe aperta la questione sulla successione, sulla strategia futura e sul mantenimento delle capacità operative della rete terroristica nella regione.
Cosa cambierà con Joe Biden alla Casa Bianca?
La vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali di novembre rischia di cambiare le carte in tavola. Durante la campagna elettorale si è parlato molto poco di Afghanistan, ma i commenti rilasciati dal neo-Presidente sono bastati a far aumentare l’incertezza su come la nuova amministrazione alla Casa Bianca deciderà di affrontare il dossier afgano nei prossimi mesi.
Se infatti Biden ha annunciato di voler perseguire sulla strada impostata da Donald Trump, cercando di portare a termine un conflitto che gli americani stanno combattendo da oltre diciannove anni, l’ex vicepresidente di Obama ha anche fatto intendere di essere favorevole alla trasformazione della missione Usa in un progetto focalizzato sull’antiterrorismo. Il problema è che l’accordo con i talebani, firmato a febbraio in Qatar, comporta il ritiro di tutte le forze della coalizione dall’Afghanistan, lasciando ai mujāhidīn il compito di ridurre l’influenza che sia al-Qaeda che l’Is tuttora possiedono nel Paese.
Tuttavia, alla Casa Bianca sanno bene come non rispettare i paletti dell’accordo significherebbe far precipitare l’Afghanistan in nuova spirale di violenza dagli effetti drammatici. Gli stessi negoziati, in corso in queste settimane tra il governo di Kabul e i rappresentanti dei talebani, si svolgono nel quadro di un rapporto impari tra le due forze in campo. I talebani controllano vaste zone del territorio e dispongono di ingenti fondi, derivanti anche dal controllo sul mercato dell’oppio.
Il governo centrale “dipende quasi esclusivamente dagli aiuti finanziari dei donatori internazionali, non essendo in grado di implementare un piano di tassazione a livello nazionale – continua Andrea Ferrari-Bravo – In questi ultimi anni, le truppe degli alleati hanno avuto un ruolo chiave nel cercare di stabilire una certa forma di equilibrio militare e politico tra governo e talebani”. Nel momento in cui si procedesse al ritiro dei militari, questo fattore di bilanciamento verrebbe a meno, lasciando presagire un rafforzamento dei mujāhidīn sul territorio.
Per Biden, dunque, l’Afghanistan consiste in un durissimo banco di prova. Gli ultimi quattro anni di politica estera di Donald Trump hanno portato a sviluppi inaspettati, tanto che, a Kabul, Biden si trova nella posizione di essere in una lose-lose situation. Procedere al ritiro delle truppe, da completare entro aprile 2021, come previsto dagli accordi di Doha, consegnerebbe l’Afghanistan nelle mani dei talebani, ristabilendo lo status quo pre-invasione. D’altro canto è chiaro come rinnegare l’accordo portato a casa da Trump, nel momento di massima forza dei talebani da vent’anni a questa parte, getterebbe ulteriore benzina sul fuoco, aprendo un nuovo capitolo di violenza all’interno di questo conflitto infinito.
La guerra, cominciata nel lontano 2001 e costata decine di migliaia di vittime tra civili e militari, aveva infatti l’obiettivo di rimuovere i talebani dal governo, alla guida del Paese dalla metà degli anni ‘90. Comunque decida di comportarsi Biden, sarebbero solo i talebani a uscire rafforzati dal processo di pace.