Scritto da Stefano Mazzola
Postato in Analysis, Middle East
Articolo pubblicato per Scomodo
La popolazione libanese continua a scendere in piazza, nonostante i rischi di contagio. Le proteste sono cominciate in seguito alla decisione del governo di Saad Hariri, alla disperata ricerca di fondi per coprire il bilancio statale in rosso, di imporre nuove tasse sul gasolio, sul tabacco e perfino sulle chiamate Whatsapp.
In un contesto economico già precario l’annuncio di nuove tasse è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso spingendo centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza per protestare contro la corruzione e l’incompetenza della classe politica. “Le proteste libanesi di ottobre sono tuttavia figlie di un movimento di contestazione durato anni” racconta Antea Enna, Dottoressa di Ricerca presso l’Università Cattolica di Milano, “in cui insegnanti, ambientalisti, dottori e professionisti di ogni categoria hanno ripetutamente contestato gli evidenti episodi di corruzione e l’incapacità della Sulta – nome con cui viene chiamata la classe oligarchica al potere – di amministrare il Paese”.
Le dimissioni del Primo Ministro Saad Hariri, avvenute il 29 ottobre, sono state il primo grande successo dei manifestanti, che chiedevano la formazione di un governo super-partes accompagnato da un ricambio della classe politica. La nomina di Hassan Diab a Primo Ministro a gennaio non è riuscita, però, ad attenuare le contestazioni nei confronti della classe dirigente. Nonostante il suo governo si presenti come tecnocratico e indipendente, composto da ministri slegati da affiliazioni partitiche, il gabinetto è di fatto sostenuto da una coalizione capeggiata da Hezbollah. Avendo i partiti che compongono la maggioranza di governo avuto un ruolo fondamentale nella scelta dei ministri, seri interrogativi sono stati posti sull’effettiva indipendenza dei tecnici.
Il governo di Hassan Diab eredita una situazione finanziaria disastrata. Con un enorme debito pubblico di 90 miliardi di dollari (circa il 170% del PIL), il governo Diab ha dichiarato di non essere in grado di ripagare 1.2 miliardi di dollari entro il 9 Marzo, data limite per il pagamento della prima di tre rate in scadenza nel 2020. Di fatto la prima dichiarazione di bancarotta nella storia del Paese.
La situazione è degenerata rapidamente. “La maggior parte del debito libanese” ascoltando Eugenio Dacrema, ricercatore presso l’ISPI MENA Center, “è infatti in mano alle banche nazionali che, se non ripagate, non hanno liquidità per i propri correntisti”. Gli istituti di credito si sono quindi visti costretti a imporre un tetto ai prelievi agli sportelli presi d’assalto dai cittadini che volevano ritirare e mettere al sicuro i propri risparmi. La rabbia dei manifestanti si è quindi riversata contro gli istituti di credito, considerati complici, assieme alla classe politica, del fallimento dello Stato.
La crisi viene da lontano
Prima della sanguinosa guerra civile del 1975-90, il Libano era conosciuto come “la Svizzera del Medio Oriente” per via dei suoi lussuosi impianti sciistici sul Monte Libano e della normativa sul segreto bancario, che rendevano il Paese meta ambita degli uomini più ricchi della regione e dei loro grandi capitali. Con gli Accordi di Ta’if del 1989 che sancirono la fine della guerra civile venne restaurato il precedente sistema politico. Basato sul confessionalismo, il sistema prevede la ripartizione delle cariche politiche ed amministrative in base alla fede religiosa, come avviene con i seggi parlamentari. Questo sistema di governo ha, in Libano, una storia profonda, risalente all’approvazione del Règlement Organique nel 1861. L’indipendenza dalla Francia nel 1943 portò all’approvazione del Patto Nazionale, con il quale cristiani e musulmani si accordarono sull’istituzionalizzazione del confessionalismo come base fondante del nuovo Stato libanese. Sin da allora la carica di Presidente della Repubblica spetta ad un rappresentante dei cristiani maroniti, quella di Primo Ministro ai sunniti e quella di Speaker della Camera agli sciiti.
Ristabilita la pace, il governo di Beirut si quindi è ritrovato alle prese con la difficile ricostruzione di un Paese in macerie, dilaniato da un conflitto durato quindici anni. Con una moneta molto debole e risorse economiche limitatissime, al governo non restava che ricorrere ad un massiccio indebitamento pubblico per finanziare la ricostruzione e la ripartenza. Proprio in quegli anni vennero gettate le basi dell’attuale sistema economico libanese, che ancora oggi presenta carenze strutturali che ne minano la sostenibilità nel lungo periodo. La permanente assenza di un settore industriale avanzato, capace di assicurare occupazione alla popolazione, ha spinto i politici a mettere mano alle casse dello Stato per elargire posti pubblici, sussidi e pensioni alla popolazione.
Ciò ha portato ad una grande occupazione nei settori non-produttivi, tanto che ad oggi i tre settori trainanti dell’economia nazionale sono il turismo, le banche e il real estate. La prosperità libanese si basa dunque su due elementi fondamentali: la capacità di attirare capitali dall’estero e, soprattutto, la fiducia nel fatto che il governo sia in grado di ripagare il debito pubblico detenuto in gran parte dalle banche.
Un ruolo fondamentale nell’economia nazionale è ricoperto dalla diaspora: la comunità dei cittadini residenti all’estero, che secondo alcune stime arriverebbe a contare fino a dieci milioni di individui (il doppio della popolazione residente in Libano), è composta mediamente da imprenditori di successo, che per anni hanno depositato le loro fortune nelle banche della propria terra d’origine, diventando un fattore decisivo per la sostenibilità del settore bancario e anche di quello immobiliare.
Una nuova ondata di proteste
Con l’arrivo della pandemia e le conseguenti misure di distanziamento sociale, le manifestazioni hanno subito un brusco rallentamento, ma l’incapacità del governo di gestire la crisi sanitaria, unita all’aggravarsi della condizione economica, ha portato i manifestanti a riprendere le contestazioni alla fine di aprile, prima scendendo in strada con le proprie vetture per paura del contagio, e poi riprendendo le manifestazioni di piazza.
L’arrivo del Covid-19 è risultato un vero e proprio spartiacque nella storia del movimento di protesta. Nella fase precedente, infatti, le manifestazioni erano state caratterizzate da una grande varietà di rivendicazioni. Con la pandemia, invece, la situazione socio-economica è precipitata ulteriormente, in un contesto in cui buona parte della popolazione vive di attività legate all’economia informale e in cui i profughi dalla vicina Siria ammontano a circa un quarto della popolazione totale. Un report governativo stima che, al momento, il 75% dei cittadini potrebbe essere bisognoso di aiuti economici. La Banca Mondiale prevede inoltre che, per la fine del 2020, il 45% della popolazione vivrà sotto la soglia di povertà. La nuova ondata di proteste è dunque mossa principalmente dalla fame e dalla rabbia dei cittadini allo stremo.
Al centro della discussione delle manifestazioni di ottobre era finito, in particolare, il rapporto simbiotico tra il sistema confessionale e la classe politica al potere da decenni. Se molti libanesi considerano la loro identità settaria alla stregua di un fattore immutabile, in “The Politics of Sectarianism in Postwar Lebanon”, Bassel F. Salloukh sostiene che questa strumentalizzazione politica delle identità settarie sia invece un costrutto recente, frutto della manipolazione portata avanti dalla classe politica. La creazione di un sistema economico clientelare, dove i cittadini dipendono dai servizi erogati dai leader della loro fazione, permette infatti a poche famiglie, la cosiddetta Sulta, di governare sull’intera società libanese. La loro legittimazione dipende dai vari servizi sanitari, educativi ed economici che riescono a erogare ai propri elettori, data la totale inefficienza dello Stato nel garantirli. Un circolo vizioso senza fine, che ha impoverito enormemente le finanze pubbliche e le tasche dei cittadini, grazie al quale la classe al potere è riuscita ad arricchirsi enormemente strumentalizzando le identità settarie per aumentare il consenso all’interno delle proprie fazioni religiose. Un’altra conseguenza di questa divisione settaria è la fragilità del sistema di governo, continuamente esposto al potere di veto delle varie fazioni. Basti pensare che per oltre dodici anni, tra il 2005 e il 2017, il governo di Beirut non è stato in grado di approvare il bilancio statale, e l’elezione del Presidente della Repubblica è stata ostacolata per tre anni, risolvendosi solo nel 2016 con l’elezione di Michel Aoun.
La presa di coscienza della popolazione ha portato alla messa in discussione di questo sistema, e al porsi la domanda se un’alternativa fosse realmente possibile. Il peggioramento della crisi economica ha avuto come conseguenza una nuova ondata di proteste, le quali hanno visto, però, un sostanziale declino delle rivendicazioni politiche e istituzionali, essendo in molti in difficoltà a procurarsi i beni di base per sopravvivere.
Paradossalmente, in questo scenario di mutamento delle rivendicazioni dei cittadini, i partiti politici, fortemente contestati nei mesi scorsi, potrebbero trovare una nuova arma di legittimazione da sfruttare nei mesi a venire. Essendo infatti gli unici in grado di erogare servizi alle loro comunità di appartenenza restano, all’interno della società libanese, l’ultimo caposaldo a cui fare riferimento in un momento di grave crisi. “Si è tornati ad assistere a scene simili a quelle della guerra civile” continua Eugenio Dacrema riferendosi al fatto che, in varie zone del Paese, i partiti sono tornati a distribuire viveri e medicine ai propri sostenitori come avveniva ai tempi del conflitto.
L’abbandono del carattere pan-confessionale delle proteste, sebbene nell’immediato futuro non ponga i presupposti per lo scoppio di un nuovo conflitto, rischia, secondo Antea Enna, di fare esplodere i conflitti sociali, minando la tenuta sociale del Paese. Vi è il serio rischio che un ulteriore rafforzamento del legame con la comunità di appartenenza possa rappresentare un’arma a doppio taglio: essendo l’unica fonte di sostentamento della popolazione potrebbe esacerbare le divisioni interne, spingendo i sostenitori delle diverse confessioni su posizioni più radicali e minando le basi di una riforma del sistema politico statale che prescinda dalle divisioni etnico-religiose.
La difficile via d’uscita
Sarà molto difficile, dichiara Eugenio Dacrema, che venga disegnata nel breve termine una soluzione politica ed economica in grado di risolvere i problemi strutturali di cui il Libano soffre. Vista la congiuntura di crisi globale e la diffidenza di vari governi a trattare con l’attuale esecutivo a causa dell’ingombrante presenza di Hezbollah nella maggioranza, non resta che sperare negli aiuti del Fondo Monetario Internazionale. Un eventuale intervento del FMI non potrebbe certamente risolvere le criticità di fondo del sistema libanese, ma consentirebbe al Paese di galleggiare almeno fino alla fine dell’emergenza globale.
I partner storici all’estero, infatti, si trovano per vari motivi impossibilitati ad intervenire. La Siria, da sempre molto presente nella vita politica ed economica di Beirut, non è assolutamente in grado di esercitare la sua influenza, visto il dilaniante conflitto interno che sta vivendo.
Il ruolo sempre più cruciale di Hezbollah, il partito-milizia filo-iraniano, nella politica nazionale ha alienato il supporto dei Paesi del Golfo, Arabia Saudita, già alle prese con gravi difficoltà economiche interne a causa del crollo del prezzo del petrolio, in primis. Vista anche l’analoga ostilità nutrita da Stati Uniti, Regno Unito e Germania, che etichettano Hezbollah come gruppo terrorista, è difficile pronosticare un intervento degli Stati occidentali.