“I DIRIGENTI POLITICI DEI PAESI EUROPEI SONO SERVI SCIOCCHI”. L’ANALISI DI DARIO RIVOLTA

“Il nostro incoraggiamento agli ucraini, detto fuori dai denti, è: andate avanti, fatevi ammazzare in tanti e poi noi vi piangeremo. Questa è la realtà”

 

Articolo pubblicato su Dissipatio  

 

«Continuiamo a parlare di solidarietà e forniture di armi all’Ucraina, nonostante tutti abbiano la consapevolezza che un blocco dei cieli sarebbe l’inizio di una guerra immediata. Noi continuiamo a supportare Zelensky, anche se sappiamo già che non si manderà nessun soldato: la Nato non interverrà, dal momento che scoppierebbe la terza guerra mondiale. Non sono parole mie, sono del Presidente Biden. A questo punto, il nostro incoraggiamento agli ucraini, detto fuori dai denti, è: andate avanti, fatevi ammazzare in tanti e poi noi vi piangeremo. Questa è la realtà».

 

Dario Rivolta, intervistato in esclusiva da Dissipatio, offre una panoramica a 360 gradi sulla crisi in Ucraina e la genesi di un conflitto che necessita una comprensione ben più articolata delle condanne unanimi che si susseguono dalla settimana scorsa. Analista ed esperto di geopolitica internazionale, Rivolta è stato per tre legislature deputato di Forza Italia e vicepresidente della commissione parlamentare Esteri dal 2001 al 2008.

 

Cosa ha portato i vertici del Cremlino a optare per l’intervento militare su vasta scala? Nonostante otto anni di tensione tra Kiev e Mosca, in pochi credevano che l’esercito russo sarebbe stato incaricato di risolvere lo stallo con la forza.

 

«È almeno dall’inizio degli anni 2000 che i russi manifestano un forte senso di contrarietà alla politica di allargamento della Nato. Nel fare questo, Mosca è stata chiara nel tracciare una linea rossa, l’Ucraina. Nonostante ciò, i tentativi di allargamento sono continuati, basti pensare al meeting Nato di Bucarest nel 2008. In quell’occasione, Bush arrivò con l’ingresso di Ucraina e Georgia all’ordine del giorno. L’opposizione di Francia, Germania e Italia, che temevano di suscitare le ire russe, fece in modo che la questione venisse rinviata a ulteriori discussioni. Dunque, l’avversione all’idea di vedere l’Ucraina diventare membro dell’organizzazione atlantica non è certo una posizione nuova. Nel frattempo però – con gli eventi di piazza Maidan a fare da spartiacque storico – gli Stati Uniti hanno continuato a fornire armi, da loro definite di natura non offensiva, e consiglieri militari a Kiev. L’esercito ucraino è stato invitato più volte a prendere parte a esercitazioni congiunte sotto l’egida della Nato, rinforzando le posizioni di chi, al Cremlino, da tempo richiedeva un intervento militare. Allo stesso modo, il fatto che la presidenza ucraina, in particolare sotto Zelensky, non si sia adoperata…. per implementare gli accordi di Minsk 2, negoziati con Francia e Germania e controfirmati dall’allora Presidente ucraino Poroshenko, ha diminuito la fiducia della Russia in una risoluzione pacifica del conflitto in corso nell’est del paese. Nessuno si aspettava che Putin facesse questo passo, ma è probabile che, nell’analisi costi-benefici, attendere ancora avrebbe poi richiesto al Cremlino sforzi maggiori».

 

Alla luce di queste considerazioni, vengono in mente i moniti di vari politici, analisti e accademici, anche americani, fortemente critici della gestione della sicurezza nello spazio post-sovietico in Europa orientale. Tra questi, John Mearsheimer prevedeva l’inevitabile distruzione dell’Ucraina, qualora si fosse continuato a lavorare su un suo avvicinamento all’Alleanza atlantica.

 

«Personalmente, ho una pessima opinione dei dirigenti politici dei paesi europei e di chi, oggi, gestisce l’Europa. Credo che la maniera più adatta per definirli sia quella di servi sciocchi, anche se, forse, perfino più sciocchi che servi. Questo perché a Washington qualcuno continua a ritenere che l’Ucraina debba diventare un alleato, e dunque che la Russia vada contenuta tramite un’opera di circondamento. Gli Stati Uniti, dal punto di vista politico, sono un mondo trasparente ma al tempo stesso complesso. C’è sempre stata, e tuttora continua, una forte pressione da parte di gruppi che potremmo definire “patologicamente” antirussi».

 

In un’intervista pubblicata sul New Yorker, Mearsheimer sostiene che «In un mondo ideale, sarebbe meraviglioso se gli ucraini fossero liberi di scegliere il proprio sistema politico e di scegliere la propria politica estera». Ma nel mondo reale, questo non è fattibile.

 

«Questa è la realpolitik, le grandi potenze non accettano che vengano toccati i propri interessi e che non vengano rispettate le linee rosse da loro tracciate. Quando si trattava di battersi contro l’Urss, Craxi, in veste di primo ministro, accettò che nella base militare di Comiso fossero ospitati i missili atomici. Quella fu una mossa fortunata, che ci portò a un trattato di disarmo reciproco riguardante i missili a medio raggio tra i due blocchi. Senza i missili a Comiso, non avremmo avuto il potere negoziale per imporre ai sovietici di togliere di mezzo le loro testate nucleari a medio raggio. La realpolitik è quella che guida il mondo, che piaccia o non ci piaccia. Oggi, consci del fatto che l’esercito ucraino prima o poi capitolerà, che senso può avere continuare a esortarli a combattere? Che messaggio vogliamo far passare? Perché, se fossimo stati pronti a intervenire come Nato, avrebbe un senso che gli ucraini resistano, dandoci il tempo di intervenire militarmente. Siccome però noi escludiamo l’intervento, e giustamente mi viene da dire, l’attuale strategia implica solo un numero sempre maggiore di vittime, anche tra la popolazione civile. Le morti, civili o militari, sono terribili, da una parte e dall’altra. Bisogna però sapersi astrarre dai sentimenti immediati. A questo punto, il nostro incoraggiamento agli ucraini, detto all’infuori delle metafore, è: andate avanti, fatevi ammazzare in tanti e poi noi vi piangeremo. Questa è la realtà. Io vorrei anche che gli americani mi spiegassero dove sta il pericolo russo, da dove nasce il timore di Mosca. Io… vedo piuttosto i benefici economici che possono derivare da una collaborazione europea con la Russia. Ahimè, forse anche in America qualcuno ne è conscio, e magari non ne è così tanto felice».

 

Qua si apre un altro capitolo. La reazione da parte del mondo politico italiano è stata, a dispetto delle previsioni, compatta e in linea con quella degli alleati. La rilevanza russa per quello che riguarda il settore energetico e dell’export sembra aver avuto poco peso. Ma è davvero così? Che ruolo ha avuto il premier Draghi nel veicolare un messaggio, almeno sulla carta, di unità nazionale?

 

«So che esistono interpretazioni anche più malevoli delle mie ma personalmente sulla strategia di Draghi lancio una mia ipotesi. L’ex presidente della Bce è stato chiamato a Palazzo Chigi con un compito preciso: rimediare ai gravi problemi economici che l’Italia sta affrontando a causa del Covid e altro. Draghi ha negoziato il Pnnr, che viene elargito in più tranches. Dal momento che l’obiettivo primario è quello di ricevere questi fondi, indispensabili per tentare una ripresa economica, ogni altra cosa è subordinata al raggiungimento di questo risultato. Essendo l’elargizione attribuita in base al giudizio di Bruxelles sull’eventuale rispetto degli impegni assunti, io posso immaginare che sia stata una scelta quasi obbligata quella di subordinarsi alle decisioni di Bruxelles. Per quello che invece riguarda il comportamento di Salvini, Meloni e Conte, va detta chiara una cosa. Si tratta di politici che non sono in grado di comprendere le dinamiche della politica internazionale. Dal punto di vista politico, sono intellettualmente dei poveracci. Ogni loro scelta viene fatta sulla base di valutazioni di politica interna e di consenso elettorale. Nel momento in cui tutti i principali quotidiani del paese sono fortemente orientati a sostenere l’Ucraina, diventa difficile per questi politicanti di basso livello avere il coraggio di avere posizioni diverse. Non sono dei Kohl, degli Schmidt, dei Craxi o dei De Gasperi. Il Pd va considerato invece un caso a parte. Io lo definisco il partito con la sindrome del convertito. Il Pci ha sostenuto la Mosca comunista, loro adesso, essendosi convertiti più o meno al liberalesimo, vedono in chiunque rappresenti la Russia il loro peggior nemico».

 

E Berlusconi? C’è stata una reazione silenziosa anche dal mondo delle imprese.

 

«Berlusconi non è lo stesso Berlusconi di anni fa. Credo che sia psicologicamente in difficoltà. È sempre stato considerato, anche correttamente, come un amico personale di Vladimir Putin. Se oggi dovesse esprimersi, come aveva fatto anni fa, a favore di Ucraina indipendente, neutrale e slegata da entrambi i blocchi, orientata dunque sul modello Finlandia o Austria, sarebbe accusato di fare questo solo per amicizia nei confronti di Putin o interessi personali inconfessabili. Quindi capisco che sia silente. Per quello che riguarda gli imprenditori e le aziende che hanno nella Russia un interlocutore privilegiato, davanti all’onda di fobia antirussa credo che tutti stentino a esporsi in prima fila. Avendo avuto io l’occasione di parlare con diversi imprenditori e operatori economici, a livello privato sono in molti a non comprendere come si sia arrivati a questa evoluzione degli eventi e sono contrari a condividere le posizioni ufficiali del nostro governo.

Chi è convinto che l’Ucraina debba entrare nella Nato, spieghi perché, qual è lo scopo? Chi poi sostiene che, dopo Kiev, toccherà ai baltici e alla Polonia, è in malafede. Sfatiamo il mito che Putin sia un pazzo. Putin è uno statista estremamente razionale che conosce bene il funzionamento della politica internazionale. Può darsi che sia un corrotto, sicuramente non è un democratico, ma sa benissimo che l’esercito russo attuale non sarebbe in grado di competere con le forze militari della Nato. Inoltre, l’economia russa non è nemmeno paragonabile a quella del blocco europeo-americano. Hanno un Pil inferiore a quello italiano. Chi prende decisioni è ben conscio dell’entità delle forze in campo».

 

Allarghiamo lo sguardo ai “fronti caldi” del continente europeo. Mi riferisco in particolare alla Bosnia Erzegovina, il Kosovo, la Georgia e la Moldavia, dove le truppe russe controllano i confini della Transnistria. Questi paesi vivono sul filo del rasoio, in bilico tra forze che spingono per l’adesione al blocco economico e militare occidentale e il legame di parte delle loro popolazioni con Mosca e Belgrado.

 

«Guardando a questi paesi, è chiaramente necessario fare dei distinguo, non possono essere trattati alla stessa maniera. Qualora però i suddetti paesi volessero ravvivare la strada dell’inclusione nel progetto europeo o della Nato, lo farebbero solo se debitamente incoraggiati da qualcuno in occidente. In maniera realistica, sarebbe lecito aspettarsi che le cancellerie europee e i rappresentanti di Washington spiegassero alle loro controparti locali che eventuali cambiamenti degli equilibri rischiano di far scatenare una guerra. Se così facessero, non succederebbe nulla. Ma se si continuano a incoraggiare, o perfino ad aizzare, certe tendenze, allora potremmo aspettarci che qualcuno si muova in una certa direzione. Non dimentichiamoci che Moldavia e Georgia sono a tutti gli effetti dei conflitti congelati. Cambiamenti dello status quo chiamerebbero in causa l’intervento russo. Per quello che riguarda la Bosnia Erzegovina e il Kosovo, la loro dimensione può essere considerata ancora più locale. La Bosnia è un non-stato, inventato, e un suo eventuale ingresso nella Nato dovrebbe spaventare tutti i generali NATO. Il Kosovo, stato lo è invece per metà. Ospita una base americana – la più grande di tutto il continente europeo – ragion per cui da parte esterna nessuno tenterà colpo di mano. Allo stesso tempo, i kosovari senza un avvallo americano non possono certo pensare di dettare la linea. È evidente come tutto sia fermamente nelle mani, e nella testa, degli americani e del loro buonsenso. Certo è che, nell’eventualità in cui la guerra in Ucraina dovesse proseguire, magari trasformandosi anch’essa in un conflitto congelato o continuato, a quel punto i problemi per il Cremlino si farebbero seri. I russi hanno bisogno di chiudere lo scontro militare nelle prossime settimane, e di questo ne sono assolutamente consci. Non è un caso che ci sia stata un’accelerazione negli ultimi giorni e siano stati lanciati tentativi, più o meno realistici, di negoziazione».

 

Ma quale punto d’incontro può esserci ad oggi tra le due fazioni?

 

«Io non vedo diversa soluzione che un cambio di governo a Kiev. Zelensky si è rivelato essere vittima dell’influenza dei vari potentati economici, degli oligarchi, degli estremisti nazionalisti e dei paesi stranieri. Se avesse particolarmente a cuore la vita dei propri cittadini, l’attuale governo ucraino dovrebbe dimettersi immediatamente, lasciando ad altri la gestione temporanea della situazione, in attesa di nuove elezioni. L’Ucraina deve concordare la sua natura di paese neutrale, adottando una costituzione federale che potrebbe permetterebbe a Kiev di mantenere la propria sovranità sul Donbas. Si tratta tra l’altro di quanto fu stabilito ma non rispettato negli accordi di Minsk, niente di nuovo. Ritengo tuttavia che sia fuori discussione il capitolo Crimea. La penisola, che il Cremlino considera russa a tutti gli effetti, detiene una rilevanza strategica e militare. La base di Sebastopoli è l’unica che, per pescaggio e dimensione, sia adatta a ospitare la flotta della marina militare russa nel Mar Nero. Le coste del Mar d’Azov non garantiscono nulla di tutto ciò, essendo per di più un mare chiuso e dunque più esposto a un attacco in caso di conflitto».

 

Ragioniamo sul futuro dell’Alleanza atlantica. C’è un rischio per i paesi europei che, in futuro, la gestione di dossier simili a quelli ucraini risulti paradossalmente in un indebolimento della sicurezza continentale? A quel punto, che ruolo potrà avere la Nato in Europa?

 

«La Nato è stata la principale dimensione di garanzia e sicurezza di cui ha potuto godere l’Europa occidentale per tutta l’era della guerra fredda. Esiste una clausola molto importante nelle pratiche che regolano il funzionamento dell’alleanza che subordina determinate tipi di scelte al parere unanime dei membri. Se in futuro ci sarà la possibilità di continuare, con realismo, a far valere questa clausola, e insieme agli altri alleati europei si ritenesse di poter essere in grado di gestire una propria posizione anche nel caso in cui questa fosse dissidente da quella americana, allora la Nato manterrà certamente una sua funzione positiva. Ma se l’appartenenza alla Nato si traducesse nel fatto di dover obbedire soltanto agli ordini americani, come quasi sempre finora è stato, beh a questo punto forse bisognerà porsi delle domande. La prima, ma quando l’Europa veramente deciderà di procedere verso la creazione di un suo vero esercito europeo? Una futura maggiore integrazione, che includa anche il settore della difesa, è impensabile senza il supporto di Italia, Francia e Germania. Sono questi i tre paesi che determinano il futuro dell’Unione. Creando, in breve, le premesse per un vero esercito europeo, la Nato potrebbe anche perdere di centralità. Questo è un ragionamento che in America hanno ben chiaro, e non a caso Washington ha sempre ostacolato la nascita di un progetto di difesa comunitario. Se invece non si riuscisse, allora si deve cercare di essere servi il meno possibile, prendendo atto che, comunque, in parte continueremo a esserlo».

 

Orientandoci verso il secondo scenario, può persistere la politica delle “porte aperte” della Nato? È quest’ultimo un fattore di destabilizzazione in Europa orientale?

 

«Sappiamo bene come la Nato sia stata creata come un organismo di difesa. Se continua a rimanerlo, non vedo obiezioni al fatto che, cum grano salis, si possano tenere “le porte aperte”. Mi riferisco a considerazioni di realpolitik. La Nato sa di essere un fattore di attrazione. In connubio con l’Unione europea, l’alleanza offre un’alternativa migliore, facendo presa sulla popolazione civile. È il ragionamento che, a seguito dello scioglimento dell’Urss, hanno compiuto i paesi una volta parte del Patto di Varsavia, e lo stesso che oggi fanno alcuni ucraini. Non si può però dimenticare la realpolitik: ove l’ingresso di nuovi membri viene vissuto da qualche altro come un’aggressione verso di sé, non si può far finta di niente e occorre valutare da tutte le parti i reali obiettivi che si hanno in mente e le loro conseguenze.  Ancora peggiore il caso di quando si pone (o si inventa) un caso di cosiddetta “ingerenza umanitaria”, come vennero chiamati gli interventi militari in Kosovo e in Libia. Non si trattò allora di nuovi ingressi, almeno per quel momento, bensì di un utilizzo propagandistico di fatti sanguinosi, interni ad uno stato, per giustificare una guerra che nascondeva però altri scopi.

Milanese, nato nel 1998. Analista appassionato di politica e Medio-Oriente, ho studiato alla St Andrews University nel Regno Unito le dinamiche geopolitiche mediorientali, caucasiche e dell'Asia centrale. Il primo libro che mi hanno regalato a cinque anni era una raccolta delle bandiere del mondo e, dopo averle imparate tutte, ho capito che per essere felice ho bisogno di esplorare. Nutro una passione sfrenata per le rivoluzioni e amo raccontarle.

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